Panorama

Foibe. Un film per capire

Esclusivo: A Tivat, sul set di «IL CUORE NEL POZZO»
 
di Laura Delli Colli

Il massacro di migliaia di civili inermi. La tragedia della pulizia etnica nelle terre slavizzate a forza. Gli spietati partigiani di Tito in azione... La fiction di Raiuno cerca di far luce su una delle pagine più buie della storia, cancellando sessant'anni di colpevole silenzio.
 
Tivat (Montenegro). Una ferita profonda e sessant'anni di silenzio. Una tragedia rimossa costata non meno di 20-30 mila vittime, uccise dalla feroce repressione del regime di Tito. Un massacro e una persecuzione di massa con un solo obiettivo, ancora attuale: la pulizia etnica. Tutto nel fondo di una foiba, una gola di terra e fango, stretta e buia. Sullo schermo sarà profonda decine di metri moltiplicati grazie agli effetti speciali.
Sul set di Il cuore nel pozzo, film prodotto da Angelo Rizzoli che Alberto Negrin sta girando per Raifiction, in realtà quei metri sono appena una decina, ma a entrarci dentro sono agghiaccianti proprio come il buco nel terreno e nella memoria collettiva che tra l'autunno del 1943 e la primavera del '45 ferì a morte il candore asciutto delle terre carsiche.

Mentre l'Italia viveva la fine della guerra, i partigiani iugoslavi con la stella rossa di Tito eliminarono con ferocia intere famiglie, uomini e donne e spesso, con loro, i bambini, solo perché oppositori, dichiarati o anche solo potenziali, della slavizzazione dei territori. Almeno 10 mila i «desaparecidos» di un massacro sul quale per mezzo secolo è calato il velo della storia, ma anche delle complicità: la lista delle sparizioni, sulle quali calò anche il silenzio dei comunisti togliattiani di allora si allungò anche per quel regolamento di conti personali o etnici che ha moltiplicato, alla fine, le cifre dei morti, reali e presunti.

Film ad alto tasso spettacolare ed emotivo, «Il cuore nel pozzo», destinato ad andare in onda su Raiuno in due serate a partire dal 10 febbraio (nella prima Giornata della memoria per le vittime delle foibe), è stato scritto da Massimo e Simone De Rita con la consulenza storica di Giuseppe Sabbatucci. Inequivocabile nel giudizio, ma che «va al di là di una lettura schierata, di parte» come dice subito Alberto Negrin. «Per un regista come me, uno che racconta solo storie destinate a far riflettere ed emozionare, non ci sono riserve né condizionamenti, ma solo il dovere di raccontare una tragedia dimenticata».
Ebreo, autore di film televisivi forti, come Il sequestro dell'Achille Lauro del 1989 e soprattutto Perlasca (2002), che ha appena conquistato ben 5 mila spettatori della Comunità ebraica di Toronto, Negrin si muove sul set come un generale: sposta camion e artificieri, comparse e vivandiere, costumisti e assistenti. Per trasformare ogni pagina di sceneggiatura in un racconto avvincente. Sotto le tende militari infestate dalle cavallette o sul tetto della fortezza austroungarica ancora perfetta nella sua granitica struttura, dà l'«azione!» e comunica attraverso l'interprete le emozioni di ogni scena da girare.

In un luglio con il termometro a 48 gradi, 150 comparse perfette nella povertà degli anni Quaranta reinventata dalla costumista di Marcinelle, Mariolina Bono, lo seguono come un pifferaio: piangono di disperazione i bambini che stanno per essere separati dalle famiglie, gridano i vecchi spintonati dalle divise verdi con la stella rossa, si difendono dalla violenza e dalle torture uomini e donne condannati a essere «infoibati».

La storia è quella di don Bruno, in fuga nelle campagne istriane per mettere in salvo, tra i bambini, Carlo e Francesco. Carlo è figlio di un'italiana, violentata dal capo partigiano Novak. E Novak va a caccia di quel bambino per eliminarlo. Il prete lo difenderà fino al sacrificio, in un racconto epico nel quale si muovono altri personaggi, il reduce alpino Ettore (Giuseppe Fiorello), la sua fidanzata Anja, i genitori del piccolo Francesco (Marta, che è l'attrice Mia Benedetta, fa l'insegnante, Giorgio, Cesare Bocci, è il medico del paese).
C'è, ancora, Marcello Mazzarella, il giovane Walter, militante del Cln che sarà sacrificato, alla fine, dai soldati titini nonostante sia dichiaratamente comunista.

Leo Gullotta è l'eroico don Bruno che, sotto la tonaca di un mite sacerdote di frontiera, ha il cuore di un leone mentre salva i bambini in fuga dalle fiamme che i titini hanno appiccato all'orfanotrofio. Dragan Bjelogrlic, invece, è il crudele Novak: quarantenne di punta del cinema iugoslavo, è il più cattivo: «La crudeltà efferata del mio personaggio? Potrei dire che forse per un serbo che ha sofferto le guerre recenti non è poi tanto difficile immedesimarsi in uno sloveno così negativo... In questi luoghi nessuno è sopravvissuto indenne alla sofferenza delle violenze etniche».

Facce datate, e look perfettamente in sintonia con la povertà, l'arretratezza, la fame del tempo nel colpo d'occhio delle famiglie ammassate come bestie sui camion in viaggio verso la deportazione: si squaglia, sotto il sole, il trucco di Sonia Aquino, la madre di Carlo. E suda, in divisa, Giuseppe Fiorello, Beppe ormai solo in famiglia che, dopo Salvo D'Acquisto, ha una certa familiarità con i successi in grigioverde.
Antonia Lìskova (in Italia ha lavorato in Don Matteo, Sospetti 2, Incantesimo e, con Nino Manfredi, in Le notti di Pasquino) è Anja, in coppia con Ettore- Fiorello.

Quando Negrin grida «Azione!» il racconto diventa storia: giovani e vecchi si cercano gridando i loro veri nomi, suggestionati dal clima emotivo che il regista ha creato mentre i soldati titini strattonano i bambini. Volano calci, pugni e gli stuntmen si confondono con le comparse per rendere meno pericoloso il realismo delle scene. Il calcio di un fucile sfiora l'orecchio del piccolo Carlo, che ha gli occhi azzurri di Gianluca Grecchi, un bambino che già la sa lunga e sogna di diventare, domani, una star della fiction come Alessio Boni. Il più grande, Adriano Todaro, spia con attenzione Gullotta e Fiorello ma in realtà vorrebbe essere Negrin: «Perché» dice «ti dà sicurezza».
Ne ha data, e non poca, a Roberto De Laurentiis, che guida localmente in partnership con Piero Amati l'organizzazione di otto settimane di rovente passione montenegrina, ma soprattutto al gran capo di Raifiction, Agostino Saccà, e a Rizzoli, che ha investito in questa produzione 4 milioni e mezzo di euro.

«Negrin è un grande regista e solo un buon film può riannodare i fili della memoria spezzata» dice Saccà. «Quest'anno su Raiuno la fiction ha battuto anche il calcio». «Per me» aggiunge Angelo Rizzoli «Il cuore nel pozzo è insieme coraggio e coerenza. Il coraggio di rompere un tabù. La coerenza di una linea editoriale che ha prodotto successi come Marcinelle e Al di là delle frontiere con Sabrina Ferilli partigiana innamorata di un nemico in divisa nazista». E se fosse, per dirla con Negrin, «soprattutto buona televisione?».

CHE FATICA SPIEGARE TUTTO AI BAMBINI

Leo Gullotta, nei panni di don Bruno, racconta la sua esperienza in Montenegro
Leo Gullotta-don Bruno è il prete coraggioso che ha il compito di portare in salvo dalle foibe un gruppo di bambini destinati a una fine orrenda.

Un bel ruolo da protagonista. È il debutto in tonaca?
No, sono già stato prete almeno altre due volte. Diciamo che qui mi sento a metà tra il sacerdote di Io speriamo che me la cavo e il preside di Cuore.

Due film affollati di bambini. Come avete spiegato le foibe a tanti piccoli protagonisti?
Ci abbiamo provato insieme, Negrin e io. Con la leggerezza di una favola, ma con la grande onestà di svelare subito che qui il lieto fine non ci sarà. Proprio com'è stato nella vera storia delle foibe.

La storia, il silenzio, la memoria dimenticata: che cosa dice la sua coscienza civile sulle foibe?
Ho cercato di capire, di saperne di più, di immergermi nella confusione storica di quel periodo. Dar voce a una tragedia dimenticata è la prima ragione che mi ha convinto ad accettare. Questo non è un film schierato, ma un atto di doverosa civiltà. E rompere il silenzio aiuta sempre. In questo caso, lo spero, a non ripetere gli errori del passato.