Secolo XIX

"Un uomo per bene", un film di cupa potenza dall'inviato Silvio Danese

VENEZIA - Nella prima sequenza del film di Zaccaro su Tortora c'è già una domanda cruciale: con quale criterio ci affidiamo alle parole di un assassino, criminale recidivo, pentito?

Pandico, il primo accusatore di Tortora, entra in un ufficio postale di Liveri di Noia. Siamo nel 1970. Per uno sgarbo dell'impiegato uccide quattro persone sull'istante. Passiamo subito alla vigilia del processo d'appello, qualche giorno prima del 20 maggio '86. Della Valle sta preparando la difesa. Da questa posizione di cronaca il film ricostruisce il caso: la prima accusa di associazione camorristica, l'arresto spettacolare, la credulità dei mass-media, l'antipatia per il personaggio indotta dall'ignoranza e dall'invidia per il successo, i profili degli accusatori Barra (che mangiò il fegato di, Turatello) e Pandico (il bravissimo Leo Gullotta), l'oscurità del primo interrogatorio (solo quattro domande senza spiegazioni), i giorni del carcere, gli sconcertanti confronti con Melluso, Villa, Sanfilippo, Barbaro, gli incontri con la famiglia, la figlia Silvia (che ha scritto il soggetto, interpretata da Giovanna Mezzogiorno) e la sorella Anna (Mariangela Melato), i pannelli difensivi di

Della Valle (Stefano Accorsi) e Coppola, la gelida posizione dei magistrati, i confronti del secondo processo, alcune assurde credulità giornalistiche, la scoperta dell'omonimia con un altro camorrista, il celebre numero di telefono equivocato e mai controllato dalla magistratura.
«Un uomo perbene» sta a metà tra il court-movie all'americana e il film-inchiesta di tradizione italiana. Non raggiunge la lucida complessità cubista di Oliver Stone, nè il passo epico di certi film di Francesco Rosi, ma la concentrazione della materia esplode a volte in una cupa potenza civile. Per molte ore ti resta addosso l'esperienza dell'oscurità, dell'arbitrarietà colpevole, la natura profonda di questa storia che senti ispirata da una vittima innocente che la reclama. Ci sono dei luoghi comuni drammaturgici: i magistrati, disegnati un po' didascalicamente come i cattivi del western; l'assenza di plausibili debolezze di Tortora, quantomeno per cancellarle.
 Anna Tortora dice che il film omette colpevolmente la figura pubblica del fratello e la sua lotta per la giustizia. E' vero. Ma non colpevolmente. In due ore, per restare, fedeli agli atti di un processo complicatissimo, è stata messa tutta la carne che il fuoco poteva cuocere.

Immagine indimenticabile, le mani di Tortora tra le sbarre della finestra del carcere di Bergamo che saluta una piccola folla. Nel controcampo dalla cella, lo vediamo di spalle, proteso nel buio. Anche la stazza imponente di Michele Placido si perde richiamando la figura sofferente dell'uomo. Al cinema, quando l'attore si deve sovrapporre al volto di un uomo pubblico e popolare, c'è sempre il rischio di inverosimiglianza. Può crollare tutto il film. Ma chi ha visto, per esempio, l'interpretazione di Gianmaria Volentè nel «Caso Moro», sa che quel grande risultato l'attore può ottenerlo "scrivendo sopra" l'uomo reale. E' anche la strada giusta intrapresa da Placido.

Silvio Danese